Della dichiarazione infedele risponde l'imprenditore anche se predisposta dal consulente che commette errori.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 31 GENNAIO 2013, N. 4846
Ritenuto in fatto
1. – Con sentenza del 16 maggio 2011, la Corte d'Appello di Brescia ha parzialmente confermato la sentenza del Tribunale di Brescia del 29 febbraio 2008, con la quale l'imputato era stato condannato, per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, indicava, nella dichiarazione relativa ai redditi del 2002, elementi passivi fittizi per circa 345.000 euro.
2. – Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di impugnazione, si rilevano la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, perché non si sarebbe tenuto conto del fatto che le ragioni dell'illecito contestato sarebbero da ricercare nella condotta del primo commercialista della ditta e nella cattiva gestione e custodia dei documenti a lui consegnati. In base a questi documenti risulterebbe provata – secondo la prospettazione difensiva – la non fittizietà dei costi indicati in dichiarazione e oggetto di imputazione. Né la Corte d'appello avrebbe correttamente valutato il comportamento dell'imputato, il quale si era adoperato per ricostruire l'effettiva situazione contabile a distanza di oltre un anno, sia tramite gli estratti conto bancari, sia tramite la richiesta di informazioni di duplicazione delle fatture di acquisto dei propri fornitori, sia interpellando i collaboratori del precedente commercialista, sia consultando i propri appunti sulla contabilità del 2002.
2.2. – Si denunciano, in secondo luogo, l'erronea applicazione della disposizione incriminatrice in relazione al concetto di “elementi passivi fittizi” e la carenza di motivazione sul punto, perché non si sarebbe tenuto conto del fatto che i costi riportati in dichiarazione erano stati determinati sulla base degli elementi a disposizione dell'imputato e della sua nuova commercialista e non avrebbero potuto, dunque, essere considerati inesistenti.
2.3. – Con un terzo motivo di doglianza, si rilevano la violazione dell'art. 43 cod. pen. e della norma incriminatrice in relazione all'imputazione soggettiva della condotta, nonché l'insufficienza e la manifesta illogicità della motivazione sul punto, perché il giudice di secondo grado avrebbe trascurato di considerare che l'imputato aveva interpellato una nuova professionista e le aveva fornito tutta la documentazione in suo possesso e che l'approntamento dei mezzi tecnici – quali l'autodichiarazione allegata alla dichiarazione dei redditi – avrebbe dovuto essere ritenuto totalmente demandato alla professionista.
2.4. – Si lamentano, in quarto luogo, la violazione dell'art. 133 cod. pen. e la carenza di motivazione in ordine alla determinazione della pena, perché non si sarebbe tenuto conto del fatto che l'imposta evasa era di poco superiore della soglia di punibilità prevista dalla legge né della scarsa capacità dell'imputato di scegliere i propri consulenti fiscali, cui conseguirebbe l'attenuazione di profili della sua responsabilità.
2.5. – Con un motivo aggiunto, l'imputato ribadisce quanto già argomentato nel ricorso, rilevando che il reato sarebbe estinto per intervenuta prescrizione.
Considerato in diritto
3. – Il ricorso è inammissibile.
3.1. – I primi tre motivi di impugnazione – che possono essere trattati congiuntamente, perché attengono sostanzialmente alla motivazione della sentenza circa l'ascrivibilità del fatto all'imputato e non alla condotta negligente dei suoi consulenti fiscali, nonché alla natura dei costi dichiarati – sono genericamente formulati.
La prospettazione difensiva – riferita, come visto, alla condotta tenuta dai commercialisti, alle modalità di ricostruzione della situazione contabile della ditta dell'imputato, alla non fittizietà dei costi indicati in dichiarazione – risulta basata su mere indimostrate affermazioni, sostanzialmente relative a pretesi disguidi con il primo commercialista, che, secondo la difesa, deteneva la documentazione contabile, e a pretese incomprensioni con il secondo commercialista, che ha predisposto la dichiarazione e la documentazione integrativa.
Su tutti gli aspetti oggetto di contestazione la sentenza impugnata, ponendosi in totale continuità con quella di primo grado, contiene, del resto, una motivazione analitica e coerente, affermando l'insostenibilità della tesi della buonafede dell'imputato, sul duplice rilievo che questo, con la sottoscrizione del modello unico e della autodichiarazione, si è assunto la responsabilità della veridicità di quanto dichiarato e che non ha fornito alcuna documentazione, né alcun altro elemento, utile a ricostruire la sua contabilità relativamente ai costi oggetto dell'imputazione.
3.2. – Generico è anche il quarto motivo di impugnazione, riferito al trattamento sanzionatorio, perché basato su mere indimostrate affermazioni relative alla scarsa gravità del fatto e alla personalità dell'imputato, che risultano, in ogni caso, inidonee a contrastare quanto rilevato dai giudici di primo grado e d'appello circa la gravità e la piena consapevolezza dell'illecito, commesso in corso di verifica fiscale da soggetto che risulta proclive alle violazioni tributarie.
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguenza che trova applicazione il principio, costantemente enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione, è preclusa dall'inammissibilità del ricorso per cassazione, anche dovuta alla genericità o alla manifesta infondatezza dei motivi, che non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione (ex multis, sez. 3, 8 ottobre 2009, n. 4239; sez. 1, 4 giugno 2008, n. 24688; sez. un., 22 marzo 2005, n. 4).
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 1.000 euro.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 1.000 euro in favore della Cassa delle ammende.
03-02-2013 18:38
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