Accertamenti bancari disposti dall'Amministrazione Finanziaria. I dati e gli elementi ivi rinvenuti sono utilizzabili.
Cassazione civile sezione tributaria sentenza 11 maggio 2012 n
7296
Accertamento induttivo, uffici tributari, conti correnti bancari,
presunzione
La sezione tributaria
(Presidente Adamo – Relatore Cosentino)
Svolgimento del processo
L'Agenzia delle Entrate ricorre nei confronti del sig. S.D. per la
cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria
Regionale del Veneto, riformando la sentenza di primo grado,
ha annullato due avvisi di accertamento IRPEF/ ILOR/SSN
relativi, rispettivamente, agli anni 1996 e 1997.
La sentenza gravata si fonda su due autonome ragioni.
In primo luogo la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto
che il processo verbale di constatazione della Guardia di
Finanza su cui si fondano gli avvisi di accertamento impugnati
sarebbe illegittimo in quanto elevato nei confronti del S. ma
basato su documentazione rinvenuta all'esito di un accesso
autorizzato nell'ambito di una verifica rivolta non nei confronti
del S. ma nei confronti della società da lui amministrata;
accesso le cui risultanze, secondo la sentenza gravata,
dovevano essere riferite alla società e non alla persona fisica
del suo amministratore (non personalmente esercente alcuna
delle attività menzionate dall'articolo 52 DPR 633/72).
In secondo luogo, la Commissione Tributaria Regionale ha
ritenuto che le risultanze emergenti dalle indagini compiute
dalla Guardia di Finanza fossero utilizzabili solo come
presunzioni semplici e non come presunzione legale.
Il ricorso dell'Agenzia si fonda su tre motivi. Col primo motivo,
riferito all'articolo 360 n. 3 c.p.c., si denuncia la violazione e
falsa applicazione degli articoli 32 DPR 600/73 e 51 e 52 DPR
633/72. Col secondo motivo, riferito all'articolo 360 nn. 3 e 4
c.p.c., in relazione all'articolo 112 c.p.c., si censura
l'ultrapetizione in cui sarebbe incorsa la sentenza gravata
pronunciandosi sull'insufficienza probatoria delle presunzioni
desumibili dalle movimentazioni sui conti bancari del
contribuente, nonostante che quest'ultimo non avesse gravato
con uno specifico motivo di impugnazione il capo della
sentenza di primo grado che aveva affermato la mancanza di
prova delle affermazioni del contribuente. Col terzo motivo,
riferito all'articolo 360 n. 5 c.p.c., si denuncia la omessa
motivazione della statuizione con cui la Commissione Tributaria
Regionale ha negato efficacia di presunzione alle risultanze
emergenti dalle indagini compiute dalla Guardia di Finanza
senza nemmeno indicarle.
Il contribuente resiste con controricorso.
La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 17.11.11, in
cui il PG ha concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso si articola in tre censure.
Con la prima censura l'Agenzia deduce che la Commissione
Tributaria Regionale avrebbe errato nell'applicare l'articolo 52
DPR 633/72 (che disciplina il potere dell'Amministrazione
finanziaria di accedere in determinate categorie di locali per il
compimento di verifiche fiscali) in una fattispecie nella quale
gli elementi posti a base della contestazione mossa al S. erano
stati raccolti nell'ambito di un indagine penale e dunque nel
contesto di una attività di polizia giudiziaria. Con la seconda
censura l'Agenzia deduce che la Commissione Tributaria
Regionale avrebbe errato nel ritenere che l'articolo 52 DPR
633/72 postuli l'identità tra il soggetto sottoposto all'accesso e il
soggetto nei cui confronti si possano utilizzare i dati e le notizie
raccolte in sede di accesso. Con la terza censura l'Agenzia
deduce che la Commissione Tributaria Regionale avrebbe
errato nel ritenere che le movimentazioni sui conti bancari del
S. costituissero una presunzione semplice, e non una
presunzione legale, di equiparazione dei versamenti non
giustificati a ricavi non dichiarati.
La prima delle suddette censure è inammissibile, perché si
fonda su un presupposto di fatto (che le acquisizioni
documentali su cui si basa l'accertamento siano state
acquisite dalla Guardia di Finanza nell'ambito di una indagine
penale) che non emerge dalla sentenza gravata. In tale
sentenza, infatti, non si fa alcuna menzione di indagini penali
né nella narrativa di fatto, né nella parte motiva e gli unici
riferimenti all'esistenza di indagini penali si rinvengono nel sunto
delle difese svolte dall'Ufficio in primo e in secondo grado
(pag. 1, rigo 25, e pag. 2, righi 32 e 33).
La seconda e la terza censura, rispettivamente relative alla
prima ed alla seconda ratio decidendi della sentenza gravata,
sono invece fondate.
L'assunto della Commissione Tributaria Regionale secondo cui
la documentazione rinvenuta presso i locali aziendali (all'esito
di un accesso che la stessa sentenza gravata ha accertato
essere stato autorizzato "dal Comandante della Compagnia di
Pordenone" e "dalla Procura della Repubblica", vedi pag. 1,
rigo 11, e pag. 3, rigo 23, della sentenza) non sarebbe
utilizzabile nei confronti dell'amministratore della società, ma
solo nei confronti della società, non ha fondamento normativo
ed urta contro il principio - affermato da questa Corte fin dalla
sentenza n. 153/96, secondo cui "Quando gli organi preposti
alle verifiche ed agli accertamenti accedono legittimamente
in un luogo, perché debitamente autorizzati (nella specie dal
Procuratore della Repubblica ai sensi dell'art. 52 del d.P.R. 26
ottobre 1972 n. 633, che disciplina l'imposta sul valore
aggiunto), essi possono acquisire anche atti e dati riguardanti
soggetti diversi dal titolare del domicilio nei cui confronti era
stata chiesta ed ottenuta l'autorizzazione"; principio ribadito
dalla sentenza n. 2775/01 ("Il provvedimento di autorizzazione
alla perquisizione domiciliare di un soggetto, emesso, su
richiesta dell'ufficio IVA, dalla competente Procura della
Repubblica, ex art. 52 del d.P.R. 633/1972, allo scopo di
acquisire documentazione fiscale relativa al soggetto stesso,
consente di acquisire, in tale domicilio, anche ulteriori
documenti di pertinenza di soggetti diversi, pur se non
menzionati nel provvedimento di perquisizione, atteso che la
"rado" ispiratrice della previsione normativa di cui all'art. 52
citato (a mente del quale gli uffici IVA possono disporre
l'accesso in locali che siano adibiti anche ad abitazione per
l'acquisizione degli elementi utili ai fini dell'accertamento
dell'imposta e delle relative violazioni, previa autorizzazione del
competente Procuratore della Repubblica) è quella di tutelare
il diritto del soggetto nei cui confronti l'accesso viene richiesto,
e non quello di creare una sorta di immunità dalle indagini in
favore di terzi, siano o meno conviventi con l'interessato. ") e
ulteriormente conformato nelle sentenze nn. 15513/02,
19837/05, 21564/05. Tale principio, enunciato con riferimento
agli accessi domiciliari (che richiedono l'autorizzazione del
Procuratore della Repubblica), opera a maggior ragione con
riferimento agli accessi in locali aziendali, che non richiedono
l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica e in relazione
ai quali l'autorizzazione del capo dell'Ufficio incide solo
sull'andamento e sulla riservatezza della gestione
imprenditoriale (vedi, Cass. 1728/99: "L'atto di autorizzazione
dell'accesso ai locali dell'impresa, reso ai sensi dell'art. 52 del
d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 in esito a valutazione della
necessità di incidere sull'andamento e sulla riservatezza della
gestione imprenditoriale al fine di riscontrare eventuali evasioni
ed infrazioni alla disciplina dell'IVA, non circoscrive l'ambito
dell'ispezione all'epoca del verificarsi dei fatti apprezzali per
detta valutazione; l'ispezione medesima resta rivolta a scoprire
violazioni, non solo a fornire conforto dimostrativo alle
inosservanze al momento conosciute o sospettate, di modo
che non subisce, sotto il profilo temporale, limitazioni diverse
da quelle attinenti al potere di accertamento, e, una volta
che sia autorizzata sulla scorta dei dati a disposizione, può
investire anche circostanze diverse, influenti per la revisione
delle posizioni del contribuente, nell'arco di tempo in cui è
esercitabile detto potere”, conformi, Cass. 16731/05 e Cass.
18155/09.
Parimenti erroneo è l'assunto, posto a fondamento della
seconda ratio decidendi della sentenza gravata, secondo cui
le risultanze emergenti dalla indagini compiute dalla Guardia
di Finanza sarebbero utilizzabili solo come presunzioni semplici,
inidonee ad invertire l'onere della prova;
dalla stessa sentenza gravata emerge infatti che dette
risultanze consistevano nella rilevazione di movimenti su conti
bancari del S. e questa Corte ha reiteratamente chiarito (tra le
tante, sent. 18081/10) che in tema di accertamento delle
imposte sui redditi, qualora l'accertamento effettuato
dall'ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti
bancari, l'onere probatorio dell'Amministrazione è soddisfatto,
secondo l'art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, attraverso
i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, mentre si
determina un'inversione dell'onere della prova a carico del
contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi
desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad
operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non
generica, ma analitica, con indicazione specifica della
riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare
come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti
imponibili. Né tale consolidato orientamento concerne solo
l'accertamento dei redditi d' impresa -cosicché risulta privo di
pregio l'osservazione della Commissione Tributaria Regionale
sul fatto che il S. non esercita in proprio alcun'atti vita di
impresa - avendo questa Sezione recentemente precisato che
"In tema di accertamento delle imposte sui redditi, i dati e gli
elementi risultanti dai conti correnti bancari vanno ritenuti
rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, ai sensi
dell'art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, se il titolare del
conto non fornisca adeguata giustificazione, a prescindere
dalla prova preventiva che il contribuente eserciti una
determinata attività e dalla natura lecita o illecita dell'attività
stessa”. (così Cass. 10578/11) e che "In terna di accertamento
delle imposte sui redditi, la presunzione di cui all'art. 32 del
d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 - secondo cui sia i
prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari
vanno imputati ai ricavi conseguiti dal contribuente nella
propria attività, se questo non dimostra di averne tenuto conto
nella base imponibile oppure che sono estranei alla
produzione del reddito - ha portata generale, nonostante
l'utilizzo (nella versione applicabile "ratione temporis")
dell'accezione "ricavi" e non anche di quella "compensi" ed è
applicabile, quindi, non solo al reddito di impresa, ma anche al
reddito da lavoro autonomo e professionale. " (così Cass.
1401/11).
In definitiva il primo motivo va accolto in parte qua. Restano
assorbiti il secondo ed il terzo motivo e, non essendo necessari
ulteriori accertamenti di fatto, si deve decidere la causa nel
merito ai sensi dell'articolo 384, secondo comma, c.p.c.,
respingendo il ricorso del contribuente avverso Tatto impositivo
impugnato.
Le spese, comprese quelle delle fasi di merito, seguono la
soccombenza.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa
la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, respinge il
ricorso del contribuente avverso l'atto impositivo impugnato.
Condanna il ricorrente a rifondere all'Agenzia delle Entrate le
spese di causa, che liquida, per il primo grado, in Euro 2.500
per onorari e Euro 2.200 per diritti, per il secondo grado in Euro
3.000 per onorari e Euro 2.800 per diritti e per il giudizio di
cassazione in Euro 3.500 per onorari, oltre spese prenotate a
debito.
28-09-2012 00:50
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