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Sentenza

Operazioni inesistenti e storno delle fatture....
Operazioni inesistenti e storno delle fatture.
Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 16 dicembre 2014 – 3 giugno 2015, n. 11396
Presidente Piccininni – Relatore Vella

Ritenuto in fatto

A seguito di p.v.c. del 21.12.2005, venivano emessi a carico delle società "M. s.r.l." (già "T. s.r.l.", concessionaria esclusiva S i) "F. s.r.l. in liquidazione" (concessionaria esclusiva M.) e T.M. s.a.s. di R.T. & C." (concessionaria esclusiva T.), nonché dei loro soci e amministratori, i coniugi R.T. ed E.B., vari avvisi di accertamento per un importo complessivo di € 1.684.612,94 relativamente agli anni di imposta 2002-2005, con i quali veniva loro contestata l'emissione di fatture di vendita per operazioni inesistenti, in quanto per un lungo periodo la società T.M. s.a.s." aveva apparentemente acquistato autovetture dalle altre due società - dichiaratamente in attesa dell'autorizzazione della T. alla commercializzazione di altre marche - per poi sistematicamente addivenire alla risoluzione consensuale delle vendite, con emissione di note di credito in variazione entro l'anno, ai sensi dell'art. 26, D.P.R. n. 633/72, senza che il prezzo venisse mai versato, né le autovetture consegnate dalle società venditrici alla società acquirente, peraltro tutte aventi sede lungo la medesima via, a breve distanza l'una dall'altra.
La Commissione tributaria provinciale di Asti accoglieva il ricorso proposto dai contribuenti, ravvisando l'effettività delle operazioni poste in essere, una lecita finalità extrafiscale e la necessità della emissione delle fatture per legittimare la presenza delle auto all'interno dei locali della società acquirente, tra tutte munita della migliore rete commerciale.
Con sentenza n. 19/28/10, depositata il 19.3.2010, la Commissione tributaria regionale del Piemonte accoglieva però l'appello dell'Agenzia delle entrate e confermava gli avvisi di accertamento, osservando: che le tre società, facenti capo ai medesimi soci e amministratori, operavano in Asti a breve distanza l'una dall'altra; che allo scopo di reatizzare una sorta di "pool multimarca" esse avevano escogitato il meccanismo per cui F. e T. vendevano le autovetture alla T. s.a.s., dotata di "maggiore appeal commerciale", la quale, una volta individuato l'acquirente, procurava la vendita ma non versava l'iva, retrocedendo l'auto alla originaria venditrice che stornava la fattura emessa con nota di credito (sicché nessuno pagava l'iva) e poi vendeva l'autovettura all'acquirente finale; che tutta l'operazione non comportava alcun movimento di merce (in quanto le autovetture restavano dov'erano), né di denaro (nessuna delle società versava alcuna somma al momento della apparente vendita e retrovendita) né di documenti accompagnatori della merce; che pertanto si trattava di una operazione fittizia, con uso sistematico delle note di credito a copertura di un negozio da inquadrare nel mandato senza rappresentanza (la simulata acquirente procurando la vendita direttamente in capo alle simulate alienanti) e con contestuale generazione medio tempore di crediti di imposta per un'Iva mai pagata, quando invece l'effettività e la neutralità dell'Iva dovevano essere anche garanzia di concorrenza sul mercato.
Per la cassazione della sentenza di secondo grado le società sopra indicate ed i loro legali rappresentanti hanno proposto ricorso affidato a tre motivi, cui l'Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.

Considerato in diretto

1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la «violazione e falsa applicazione degli art. 1376, 1703 cod. civ. e 21 dpr 26.10.1972 n. 633 in relazione alla qualificazione del rapporto tra le società interessate come mandato senza rappresentanza e, conseguentemente, delle cessioni di autovetture tra le società stesse come operazioni inesistenti».
1.1. In sostanza, il giudice d'appello avrebbe erroneamente qualificato le cessioni dei veicoli dalle società T. s.r.l. e F. s.r.l. alla T.M. s.a.s. come operazioni inesistenti, poiché in effetti quest'ultima - concessionaria del marchio T. con divieto di vendita diretta di autovetture di altri marchi - al fine di fronteggiare la crisi dell'auto e la concorrenza delle concessionarie plurimarche, avrebbe portato avanti, per circa due anni, una trattativa diretta ad eliminare la clausola restrittiva, nelle more della quale le altre due società le avevano venduto le loro autovetture S. e M. affinchè essa, una volta rinegoziati gli accordi con T., le rivendesse direttamente ai clienti finali, per poi procedere (solo allora) al pagamento in favore delle cedenti; sennonché, prima della conclusione delle trattative con T., la T.M. s.a.s, sarebbe riuscita, "grazie alle sue capacità attrattive", ad individuare rapidamente gli aspiranti acquirenti delle autovetture cedute, per cui le tre società si sarebbero indotte a risolvere consensualmente i contratti, con annullamento delle fatture emesse da T. s.r.l. e F. s.r.l. mediante note di credito.
1.2. Sulla base di questa complessa ricostruzione in fatto, i ricorrenti sostengono l'inapplicabilità dell'art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/72, con conseguente esonero per le società "M.T. s.r.l." e "F. s.r.I. in liquidazione" dall'obbligo di versare l'iva portata dalle fatture emesse, nonché diritto della "T.M. s.a.s. di R.T. & C." alla detrazione dell'imposta relativa alle fatture medesime.
1.3. Il motivo è palesemente inammissibile, poiché, sotto la veste apparente di una censura in diritto, si chiede in realtà a questa Corte una nuova valutazione del merito della causa, che però non è consentita in sede di legittimità.
2. Con il secondo mezzo, si deduce altresì la «violazione e falsa applicazione dell'art. 26 dpr 26.10.1972 n. 633 in relazione alla ritenuta illiceità del ricorso allo storno delle fatture relative alle operazioni ritenute inesistenti».
2.1. La sentenza impugnata viene censurata per aver interpretato il ricorso allo storno delle fatture ex art. 26 D.P.R. n. 633/72 come strumento "giustificato solo in presenza di casi eccezionali di patologia contrattuale, anziché riconoscere la liceità del ricorso a tale strumento ogniqualvolta - per le ragioni più diverse - viene meno l'operazione imponibile", ivi compresa l'ipotesi - ritenuta integrata nella fattispecie concreta - dello scioglimento dei contratti di vendita per mutuo dissenso.
2.2. Il motivo è infondato.
2.3. Come più volte rilevato da questa Certe (da ultimo, Cass. n. 8535 del 2014) in tema di Iva, la speciale procedura di variazione prevista dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26 - che consente al cedente di portare in detrazione l‘Iva In ogni caso in cui "un'operazione per la quale sia stata emessa fattura... viene meno in tutto od in parte, o se ne riduce l'ammontare imponibile" - presuppone necessariamente, come si desume univocamente dalla funzione perseguita dalla norma, che l'operazione per la quale sia stata emessa fattura, da rettificare perché venuta meno in tutto o in parte in conseguenza di uno degli specifici motivi indicati nel secondo comma della norma stessa, sia una operazione vera e reale, e non già inesistente. Ciò discende arche dal disposto del menzionato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7. Il quale nel prevedere, allo scopo di ricondurre a coerenza il sistema impositivo dell'iva, fondato sul principio della rivalsa e della detrazione, che, se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura - da un lato incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, costituendolo debitore d'imposta sulla base dell'applicazione del solo principio di cartolarità, e, dall'altro, incide indirettamente, in combinato disposto con lo stesso D.P.R., art. 19, comma 1, e art. 26, comma 3, anche sul destinatario della fattura medesima. Il quale non può esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell'imposta in totale carenza del suo presupposto, e cioè dell'acquisto (o dell'importazione) di beni e servizi nell'esercizio dell'impresa, arte o professione" (Cass. n. 24231 del 2011, n. 12353 del 2005, n. 7289 del 2001). Inoltre, dal tenore della norma si evince che le ragioni per cui si determina il venire meno di una operazione possono essere molteplici (tanto che l'elenco appare solo indicativo) e ciò che assume rilevo non è tanto la modalità con cui si manifesta la causa di variazione dell'imponibile Iva, quanto piuttosto che della vacazione e della causa si effettui la registrazione ai sensi del D.P.R. n. 633 de 1972, artt. 23, 24 e 25. Pertanto, la prova della corrispondenza delle operazioni può legittimamente essere fornita soltanto attraverso l'indicazione di quei dati che risultino idonei a collegarle - essendo lo scopo perseguito dalla legge quello di impedire pericolose forme di elusione degli obblighi del contribuente, ed essendo tale scopo perseguibile attraverso il principio di immodificabilità, sia unilaterale, sia concordata tra le parti, delle registrazioni obbligatorie, fatto salvo il caso di successive variazioni dell'imponibile o dell'imposta, ex art. 26 citato - attraverso la dimostrazione, di cui è onerato il contribuente, dell'identità tra l'oggetto della fattura e della registrazione originarie, da un canto, e l'oggetto della registrazione della variazione, dall'altro, in modo da palesare inequivocabilmente la corrispondenza tra i due atti contabili (Cass. n. 8535/2014 cit; Cass. n. 9188 del 2001).
2.4. Nel caso di specie, con approfondita motivazione, non censurabile in questa sede, il giudice d'appello ha ritenuto che "dalla qualificazione contrattuale dei rapporti vertiti continuativamente per circa tre anni fra le tre società emerge de plano che - per definizione - non vi era alcuna cessione delle auto dalla mandante alla mandataria, per la chiara ragione che quest'ultima aveva unicamente l'obbligo di procurare la vendita, che sarebbe stata poi stipulata direttamente dalla mandante. Il che significa che già in tesi non vi era alcuna cessione di auto dalla mandante alla mandataria, la prima restando costantemente la proprietaria delle auto per le quali operava la seconda. Quindi le pretese cessioni erano sicuramente inesistenti, secondo la stessa prospettazione di parti appellati. Ancora sul piano giuridico; le tre società simularono una serie di compravendite, che non erano minimamente volute, come dimostra il barocco sistema di fatturazione-storno-retrocessione-vendita definitiva, ed in realtà erano mirate a dissimulare un unico contratto di mandato". E, sotto lo specifico profilo di diritto che ne occupa, la corte territoriale ha condivisibilmente aggiunto che l'art. 26 cit. '"vieta il ricorso alla fattispecie in esame in via ordinaria, e cioè al di fuori di casi eccezionali di patologia contrattuale", laddove nella fattispecie concreta si trattava proprio di "un meccanismo ordinario escogitato per ovviare ai vincoli contrattuali, senza che ricorresse alcun fattore eccezionale sul piano economico e contrattuale".
3. Con il terzo motivo di ricorso viene infine dedotta la «violazione e falsa applicazione del principio del primato del diritto comunitario e degli artt. 19 e 26 dpr 26.10.1972 n. 633 in relazione ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria in ordine alla fatturazione per operazioni inesistenti».
3.1. La decisione del giudice d'appello viene stavolta censurata nella parte in cui si assume "irrilevante il fatto che, nell'arco del medio periodo, non si sia realizzata una evasione I.V.A., dal momento che il meccanismo dell'imposta è regolato da formalismi ... mirati a presidiare l'effettività e la neutralità dell'imposta, che sono garanzia di concorrenza sul mercato"; al contrario, per la prevalenza del diritto europeo su quello interno, la fatturazione di operazioni inesistenti non dovrebbe generare l'obbligazione tributaria se, grazie alla tempestiva regolarizzazione della situazione (nel caso di specie avvenuta entro l'anno fissato dal D.P.R. n. 633/72, art. 26), non si sia prodotto alcun danno per le entrate fiscali.
3.2. Il motivo è infondato.
3.3. Occorre innanzitutto rilevare che il d.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7 - laddove prevede che, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l'imposta stessa è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura - va interpretato nel senso che il corrispondente tributo viene considerato "fuori conto" e la relativa obbligazione resta "isolata" da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate, senza che possa operare, per tale fatto, il meccanismo di compensazione, tra Iva "a valle" ed Iva "a monte", che presiede alla detrazione d'imposta dì cui all'art. 19 del D.P.R. citato, e ciò anche in considerazione della rilevanza penale della condotta consistente nell'emissione di fatture per operazioni inesistenti (ex plurimis, le pronunce di questa Corte n. 12353 del 2005; n. 22882 e n. 24065 del 2006; n. 1950 del 2007; n. 24990 del 2013; n. 1565 e n. 3105 del 2014; n. 1289 del 2015; cfr. Corte Giust. CE ed UE 3 dicembre 1989, in causa C-342/87, Genius Holding BV; punti 15-19; 19 settembre 2000, in causa C-454/98, Schmeink & Cofreth e Strabei, punto 53; 6 novembre 2003, in cause riunite da C-78/02 a C- 80/02, Karageorgou ed altri; 15 marzo 2007, in causa C-30/05, Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH; 6 settembre 2012, in causa C- 324/11, T. vs. N.A.).
3.4. Va poi considerato che un conto è l'emendabilità, da parte del contribuente, degli errori (anche non meramente materiali o di calcolo) commessi in atti costituenti il presupposto dell'imposizione fiscale, che rappresenta l'espressione di un principio generale del sistema tributario; altro è invece ('utilizzo sistematico di forme di regolarizzazione per porre in essere operazioni fittizie, come ritenuto dal giudice di merito nella fattispecie in esame. Al riguardo, la Corte di Giustizia ha in effetti precisato che gli Stati membri sono tenuti a contemplare nei rispettivi ordinamenti giuridici interni, al fine di garantire l'applicazione del principio di neutralità dell'Iva, la possibilità di rettificare ogni imposta indebitamente fatturata, purché chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede o abbia completamente eliminato, in tempo utile. Il rischio di perdita di gettito fiscale (v. Corte Giust. 13 dicembre 1989, causa C- 342/87, Genius Holding, punto 18; 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth e Strabei, punti 56, 61 e 63; 6 novembre 2003, causa da C - 78/02 a C-80/02, Karageorgou e a., punto 50; 31 gennaio 2013, causa C* 643/11, LVK - 56 EOQD, p. 37; 18 giugno 2009 causa C- 566/07, pp. nn. 35 - 38; cfr. Cass. n. 22133 del 2013). Nel caso di specie, la corte territoriale si è limitata a dare atto che, "nell'arco del medio periodo", non si sarebbe realizzata una evasione Iva, mentre il contribuente non ha dimostrato né la propria buona fede, né di aver completamente eliminato il rischio di perdita di gettito fiscale, con riguardo ai termini concreti dell'operazione così come ricostruita dal giudice d'appello (e cioè una serie di compravendite simulate, dissimulanti un rapporto di mandato).
4. In conclusione, il ricorso va rigettato ed i ricorrenti soccombenti vanno condanti alla rifusione delle spese processuali in favore della Agenzia delle entrate, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 9.000,00 oltre spese prenotate a debito.
Avv. Antonino Sugamele

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