Le obbligazioni tributarie non sono escluse dall’esdebitazione, per cui il fallito che abbia beneficiato della liberazione dai debiti residui, con il decreto di cui all’art. 142 l. fall., non è più tenuto al pagamento delle somme dovute nei confronti dell’Erario.
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – T, ord. interlocutoria 8 – 30 ottobre 2014, n. 23129
Presidente/Relatore Cicala
Svolgimento del processo e motivi della decisione
L'Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione -deducendo quattro motivi -avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte 19/8 /12 del 26 marzo 2012 che rigettava l'appello dell'agenzia confermando la illegittimità di cartella di pagamento con cui era stato chiesto al sig. I. il versamento di somme a titolo di IVA e IRAP per l'anno di imposta 2003.
I giudici di merito hanno affermato che tali somme non sono dovute posto che il sig. I., socio accomandatario della fallita l'I. sas (e fallito in proprio) ha ottenuto dal Tribunale di Mondovì un decreto di esdebitamento in data 14 aprile 2008.
2. il sig. I. si è costituito in giudizio.
E' stata depositata la seguente relazione:
3. Il ricorso deve essere rigettato.
Giova premettere che l'art. 142 della legge fallimentare vigente (così come introdotto dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), prevede che a determinate condizioni, che qui non rilevano in quanto il loro accertamento è compito del Tribunale fallimentare, " il fallito persona fisica è ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti".
Restano esclusi dall'esdebitazione:
a) gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all'esercizio dell'impresa;
b) i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti.
La lettera a) è stata così modificata dall'art. 10 comma 1, D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169. a decorrere dal 1° gennaio 2008 (in precedenza si parlava dei crediti "non compresi nel fallimento ai sensi dell'art. 46". ma si può concordare con la Avvocatura che la modifica abbia avuto un portata meramente interpretativa).
Emerge fin da una prima lettura, come i crediti tributari non siano esplicitamente esclusi dall'esdebitamento; e questa osservazione non è priva di rilievo da momento che in altre disposizioni il legislatore si è preoccupato di dettare specifiche disposizioni attinenti ai crediti tributari (cfìr. l'art. 182 ter della medesima legge fallimentare). Ed il regime dei debiti tributari è, regolato nella legge 3/2012 (come modificata ed integrata dal di 179/2012 conv. in legge 212/2012, che ha introdotto il così detto "esdebitamento" dei soggetti non contemplati dalla legge fallimentare).
La ricorrente Avvocatura svolge però ampie argomentazioni per sostenere in via interpretativa questa esclusione.
Sostiene (in particolare nel primo motivo) che le obbligazioni tributarie sarebbero "estranee all'esercizio dell'impresa" in quanto sarebbero collegate all'esercizio dell'impresa da un rapporto meramente occasionale.
Si afferma nel ricorso:
"In primo luogo, occorre tener conto del significato letterale dell'espressione adoperata dal legislatore. In questa ottica è necessario dare un contenuto al concetto di "rapporti estranei all'esercizio dell'impresa.
Si è in presenza di una locuzione che si comprende a contrario, considerando, cioè, cosa si intenda per rapporti inerenti all'esercizio dell'impresa. Con siffatta locuzione, per tradizione, il legislatore si riferisce alle obbligazioni che un soggetto assume nella qualità di imprenditore. Esse, di regola, sorgono a seguito della stipulazione dei c.d. contratti di impresa (già conosciuti dal codice di commercio del 1882 come "atti di commercio"), vale a dire quei contratti che l'imprenditore conclude per finalità di impresa, ossia allo scopo di procurarsi i fattori della produzione (contratti con i fornitori, contratti di lavoro subordinato ed in genere di collaborazione), ovvero per assicurarsi il guadagno dell'attività (contratto di vendita, appalto, ed altri).
Se si tiene conto di ciò, non potrà che concludersi nel senso che i debiti estranei all'esercizio dell'impresa sono quelle obbligazioni che non rispondono alla finalità imprenditoriale, vale a dire che non sono assunte con finalità di produzione dei beni e servizi e di successiva collocazione degli stessi sul mercato.
Tra questi, indubbiamente, rientrano i debiti tributari. Il debito tributario, infatti, non è assunto in ragione della qualità di imprenditore rivestita dal debitore né con finalità di impresa, poiché, all'evidenza, è un debito che grava su tutti i cittadini e la cui finalità è quella di concorrere alla spesa pubblica (secondo quanto espressamente sancito dall'art. 53 Cost. - sul quale si avrà modo di ritornare nel secondo motivo di ricorso).
Il debito tributario, dunque, può sorgere "in occasione" dell'attività di impresa, ma non è un debito "inerente" all'attività di impresa.
Esso, pertanto, deve ritenersi ricompreso nei "rapporti estranei all'esercizio dell'impresa" di cui all'art. 142 3°comma lett. a).
La deduzione , prospettata sotto il profilo della violazione di legge, non risulta proposta nel giudizio di merito; è quindi di dubbia ammissibilità. Comunque può essere esaminata solo sotto un profilo: la esclusione ope legis di tutti i debiti tributari dall'esdebitamento.
Simile tesi deve essere respinta. In quanto sussisto indubbiamente oneri tributari (e piuttosto rilevanti) che sicuramente sono "derivanti da rapporti non estranei all'esercizio dell'impresa". Fra questi -sia detto per inciso- rientrano sicuramente IVA ed IRAP (che a quanto risulta dalla narrativa sono richieste dall'atto tributario impugnato) che sono dovute proprio e soltanto perché le operazioni economiche da cui scaturiscono costituiscono esercizio dell'impresa.
Mentre non rientra nel presente giudizio la valutazione se vi siano rapporti tributari esclusi dall'esdebitamento (come si potrebbe sostenere per l'ICI su una casa di abitazione).
Con un secondo argomento, sviluppato in modo particolare nel secondo motivo, l'Avvocatura erariale invoca l'art. 53 della Costituzione e quindi sostiene la inderogabilità dei crediti tributari in quanto espressione del dovere di ogni soggetto di concorrere alle spese pubbliche.
L'argomento, come emerge dalle attente argomentazioni presenti nel ricorso, condurrebbe però ad una dichiarazione di incostituzionalità di tutta la normativa sull'esdebitamento e in fondo di tutta una prassi legislativa che previsto la "definizione agevolata", o addirittura l'abbandono di crediti tributari.
La stessa presunta "irrinunciabilità" dei crediti tributari è, del resto, posta in crisi da disposizioni come articolo 17bis nel corpo della legge 546/1992 introdotto dall'art. 39, comma 9, D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, secondo cui la Amministrazione nel formulare la sua eventuale proposta di mediazione deve aver "riguardo all'eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità deU'azione amministrativà'; cioè, sembrerebbe alla eterna massima "pochi maledetti e subito", che induce a rinunciare ad una pretesa giuridicamente fondata, ma di incerto incasso, accettando una somma minore ma di sicuro incasso.
Del resto, è difficile individuare un qualche credito cancellato dall'esdebitamento che non goda di tutela costituzionale (è ad esempio ovvio che ne godono i crediti del lavoratore); e tuttavia in un bilanciamento di interessi (e disposizioni costituzionali) contrapposte, il legislatore sacrifica i diritti dei creditori in vista del ragionevole obbiettivo di consentire al fallito incolpevole (ed in genere a tutti gli indebitati) di riprendere la loro attività economica senza il timore di dover versare quasi tutto il percepito ai creditori. E questo sacrificio trova ulteriore giustificazione nella circostanza che - se le procedure fallimentari sono state regolarmente esperite - il fallito non possiede più alcun bene e dunque si tratta di crediti di quasi impossibile soddisfacimento (e nulla dovrebbe più possedere anche il non imprenditore che si sia sottoposto alla procedura di liquidazione del suo patrimonio di cui al d.l. 179/2012 conv. in legge 212/2012).
Con il terzo motivo la Avvocatura sottolinea come i crediti esposti nella cartella impugnata avrebbero in parte natura sanzionatorio e ciò li escluderebbe dall' esdebitamento.
Il motivo appare inammissibile perché comporta un accertamento in fatto circa la natura dei crediti esposti, che non risulta richiesto in sede di merito.
Appare inoltre infondato perché le sanzioni di cui si tratta sono strettamente connesse al debito principale che viene -in ipotesi- estinto. E non appare logico limitare l'effetto dell'esdebitamento alle sanzioni che derivino da crediti pienamente soddisfatti; mentre la coerenza del sistema induce a cancellare anche le sanzioni connesse ai debiti divenuti inesigibili (e che sovente sono rapportate all'ammontare di tali debiti).
Con il quarto motivo la Amministrazione invoca l'ultimo comma dell'art. 144 della legge fallimentare secondo cui, in caso di "creditori anteriori alla apertura della procedura di liquidazione che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo" , " l'esdebitazione opera per la sola eccedenza alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado".
Il motivo appare però inammissibile in quanto invocato per la prima volta - a quanto risulta- in sede di ricorso per cassazione.
Il Collegio preso atto delle deduzioni orali della Avvocatura di Stato, in considerazione dell'importanza della questione dedotta ha ritenuto opportuna la trattazione della controversia in pubblica udienza.
P.Q.M.
Rinvia la controversia alla pubblica udienza della medesima VI sezione (articolazione V).
09-11-2014 09:23
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