Transfer pricing contestabile anche se non c'è la prova dell'elusione fiscale. Tassazione di 200mila euro di costi per un marchio, pagati a una controllata estera.
Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 28 novembre 2012 - 8 maggio 2013, n. 10739
Presidente Greco – Relatore Bruschetta
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 105/01/08 depositata in data 15 dicembre 2008 la Commissione Tributaria Regionale dell'Emilia Romagna - in parziale riforma della decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Rimini n. 199/01/06 depositata in data 30 ottobre 2006 - annullava l'avviso di accertamento n. (...) IRPEG ILOR 2003 emesso dalla territoriale Agenzia delle Entrate nei confronti della contribuente O. S.r.l. nella parte in cui venivano ripresi a tassazione costi per € 200.000 relativi al pagamento del marchio "Il cono d'oro" ritenuti dall'Ufficio indeducibili perché eccessivi oltreché maggiori redditi per complessivi € 557.566,23 relativi ad "abbuoni" a beneficio di controllate estere ritenuti non veritieri. Secondo la CTR, con riguardo alla ripresa a tassazione di € 200.000, l'Amministrazione non aveva dato dimostrazione del minor valore del marchio "Il cono d'oro". Una dimostrazione che non potevasi ricavare dalle sole allegate circostanze che il marchio, inventato solo tre mesi prima, non fosse ancora stato registrato e pubblicizzato o anche dalle contrarie affermazioni di imprese concorrenti. Con riguardo alla ripresa a tassazione di € 557.566,23 - ricondotta alla fattispecie cosiddetta di transfer pricing - dalla CTR si riteneva che l'Amministrazione non avesse dimostrato il regime fiscale di maggior favore dei Paesi esteri sede delle controllate. E, questo, perché l'ammontare degli sconti praticati alle controllate estere era da considerarsi plausibile e perché l'Amministrazione non aveva allegato il "valore normale" delle cessioni e mentre doveva considerarsi "inconferente" la evidenziata sproporzione tra prezzi praticati a clienti e prezzi praticati alle controllate.
Contro la sentenza della CTR, l'Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
La contribuente resisteva con controricorso, a sua volta proponeva ricorso incidentale condizionato affidato a motivi.
Contro il ricorso incidentale condizionato, l'intimata Agenzia delle Entrate non presentava difese.
La contribuente si avvaleva della facoltà di presentare memoria.
Motivi della decisione
Ex art. 335 c.p.c. riunisce i ricorsi principale e incidentale condizionato.
Col primo motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione degli artt. 9 e 75 d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, degli artt. 4 e 5 d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, dell'art. 19 d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, e dell'art. 2697 c.c. L'Agenzia delle Entrate, a riguardo, deduceva che la CTR era incorsa in errore addossando all'Amministrazione l'onere della dimostrazione del "valore adeguato del costo" relativo al pagamento del marchio "Il cono d'oro". Secondo l'Agenzia delle Entrate, difatti, l'Amministrazione non poteva esser "tenuta a provare il valore normale del bene". E, ciò, particolarmente nel caso in esame, "in cui era impossibile enucleare criteri analitici di determinazione del valore normale della transazione". Cosicché avrebbero dovuto esser considerati "sufficienti" i "precisi elementi indiziari circa la sussistenza di una rilevante divergenza tra il valore esposto in bilancio e valore effettivo", forniti dall'Amministrazione, per ritenere che al contribuente spettasse "l'onere di provare l'inerenza del costo o di parte di esso, fornendo tutti gli elementi atti a supportare la deducibilità". La illustrazione del motivo, terminava con il quesito: "se - in una fattispecie in cui l'Amministrazione finanziaria abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG, IRAP e IVA i costi sostenuti per la cessione in via esclusiva dell'uso di un marchio sostenendone l'evidente sproporzione rispetto al valore effettivo - incorra nella violazione degli artt. 75 e 9 d.p.r. n. 917/1986, 4 e 5 del d.lgs. 446/1997 19 d.p.r. n. 633/1972 e 2697 c.c. la sentenza della CTR la quale affermi che l'Amministrazione finanziaria sia tenuta a provare il valore normale del bene, mentre le anzidette disposizioni debbono essere correttamente interpretate nel senso che la stessa amministrazione debba esclusivamente fornire precisi elementi indiziari circa la sussistenza di una rilevante divergenza tra il valore esposto in bilancio e valore effettivo ovvero di un comportamento contrario a criteri di coerenza e razionalità economica; in tale ipotesi, spetta al contribuente l'onere di provare l'inerenza del costo o di parte di esso".
Il motivo è fondato.
Questa Corte, a riguardo, rammenta la sua costante giurisprudenza orientata nell'interpretare l'art. 75, comma 4, d.p.r. n. 917 del 1973, testo applicabile ratione temporis, nel senso che, poiché trattasi di provare una deduzione, spetta al contribuente ex art. 2697 c.c. dimostrare, quando l'Ufficio abbia dato conto di taluni elementi di irrealtà del valore dedotto, l'ammontare delle spese per beni o servizi da dedursi (Cass. n. 19489 del 2010; Cass. n. 9917 del 2008). E, nel caso concreto, l'Amministrazione aveva evidenziato come la novità del marchio, oltreché l'assenza di spesa pubblicitaria a sostegno dello stesso, ecc., deponessero nel senso della eccessività del costo dedotto a titolo di pagamento della privativa. La CTR, quindi, non ha correttamente applicato le disposizioni, laddove, dal mancato assolvimento di un inesistente onere della prova posto a carico dell'Amministrazione, ha fatto derivare la deducibilità del costo.
3. Col secondo motivo la sentenza è stata censurata à sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. per insufficiente motivazione circa la inesistenza di una rilevante divergenza tra il pagamento di € 200.000 del marchio e il valore "reale" dello stesso, senza alcuna considerazione per gli elementi allegati dall'Amministrazione come, ad es., l'esser stato il marchio appena realizzato e non ancora registrato e oltreché per il fatto che non era stata sostenuta alcuna spesa per pubblicità.
Il motivo è da ritenersi assorbito coll'accoglimento del primo.
4. Col terzo motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell'art. 76, comma 5, d.p.r. n. 917 del 1986 e degli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 446 del 1997. Secondo l'Agenzia delle Entrate, difatti, la CTR aveva errato nel ritenere che, in materia di transfer pricing, regolata dall'art. 76, comma 5, d.p.r. n. 917 del 1986, testo applicabile ratione temporis, l'Amministrazione fosse anche tenuta all'onere della dimostrazione della esistenza di un regime di miglior favore fiscale dei Paesi esteri in cui hanno sede le altre Società del Gruppo. La circostanza del miglior regime fiscale, sempre secondo l'Agenzia delle Entrate ricorrente, era, invece, da ritenersi estranea alla fattispecie del transfer pricing, di cui all'art. 76, comma 5, d.p.r. n. 917 del 1986, "Ciò in quanto la disposizione in esame ha la finalità non già di valutare il carico fiscale complessivo gravante sull'operazione infragruppo, ma piuttosto di procedere a una corretta determinazione del reddito imponibile allocabile in Italia". L'illustrazione del motivo si concludeva col quesito: "se - in fattispecie in cui l'Amministrazione abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG e IRAP in maggiori ricavi in capo a Società di capitali derivanti da operazioni intercorse con Società controllate estere in applicazione del criterio del valore normale di mercato dei beni oggetto di scambio in applicazione dell'art. 76, comma 5, TUIR, incorra nella violazione di tale disposizione (e, conseguentemente degli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 446/1997) la sentenza della CTR la quale affermi che l'Amministrazione finanziaria sia tenuta a provare che in Italia viga un carico fiscale maggiore rispetto a quello del Paese di residenza delle Società controllate con cui sono intercorse le operazioni, in quanto l'anzidetto art. 76, comma 5, TUIR deve esser correttamente interpretato nel senso che l'aspetto della potenziale elusività complessiva dell'operazione non riveste alcuna rilevanza ai fini dell'applicazione dell'anzidetta disposizione, soggiacendo le operazioni infragruppo unicamente al rispetto del valore normale". Il motivo è fondato.
Deve esser preliminarmente evidenziato come il cosiddetto transfer pricing costituisca, dal lato economico, un'alterazione del principio della libera concorrenza. E questo nel senso che transazioni tra Società appartenenti ad uno stesso Gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato. Il fenomeno, quindi, da luogo ad uno spostamento di imponibile fiscale. E, pertanto, permette di sottrarre imponibile a Stati con maggiore fiscalità. Cosicché, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di ciascuno Stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare il fenomeno stesso del transfer pricing. Normative che recepiscono il principio del prezzo normale delle transazioni commerciali, contenuto nel Modello OCSE art. 9, comma 1, Convenzione del 1995. Principio recepito anche in Italia, nel testo applicabile ratione temporis, dall'art. 76, comma 5, d.p.r. 917 del 1986. La disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perché la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sé. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui dall'art. 76, comma 5, d.p.r. 917 del 1986, non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete, provare la elusione. E' pertanto necessario, da parte dell'Amministrazione, soltanto dimostrare l'esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all'art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali à sensi dell'art. 9, comma 3, d.p.r. n. 917 del 1986. Disposizione per la quale, come noto, sono da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati "in condizioni di libera concorrenza" con riferimento, "in quanto possibile", a listini e tariffe d'uso. Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova documentali (Cass. n. 11949 del 2012; Cass. n. 7343 del 2011). La CTR, quindi, non ha correttamente interpretato la disciplina, quando ha preteso dall'Amministrazione la prova dell'elusione e particolarmente la prova di una fiscalità di favore della legge straniera e della anormalità dei prezzi di transazione intergruppo.
5. Col quarto motivo di ricorso, l'Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. per insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, questo rappresentato dalla prova del valore normale dei beni ceduti relativamente alla fattispecie cosiddetta di transfer pricing, che il giudice di merito illogicamente non avrebbe ritenuta assolta nonostante gli indizi portati dall'Amministrazione, come p.es. l'ammontare degli abbuoni.
Il motivo è assorbito coll'accoglimento del terzo.
6. Col primo motivo di ricorso incidentale, condizionato all' "accoglimento del secondo motivo del ricorso" principale, la contribuente censurava la sentenza à sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. per "omessa/insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso". La contribuente, a riguardo, deduceva che la CTR aveva > riconosciuto all'Amministrazione la possibilità di non riconoscere i costi "con riferimento a scostamenti evidenti e del tutto irrazionali". Fatto decisivo e controverso doveva quindi intendersi quello "degli elementi sufficienti a sostenere la razionalità" del costo del marchio "Il cono d'oro". Elementi che la contribuente affermava di aver fornito.
Il motivo è da rigettarsi, intanto, perché condizionato all'accoglimento del secondo motivo del ricorso principale, rimasto, però, assorbito. Peraltro, col motivo in esame, non viene in realtà censurato un vizio di motivazione. Bensì, inammissibilmente, si censura un error in iudicando consistente in thesi nell'aver la CTR ritenuto che l'Amministrazione potesse sindacare il costo del marchio "con riferimento a scostamenti evidenti e del tutto irrazionali" (Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 4178 del 2007).
7. Col secondo motivo del ricorso incidentale, "condizionato all'accoglimento dei motivi n. 3 e/o 4 del ricorso" principale, la contribuente censurava la sentenza à sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. per violazione dell'art. 112 c.p.c., per non aver statuito sulla eccezione circa l'inesistenza del "rapporto di controllo" tra la contribuente e le Società straniere con le quali erano avvenute le transazioni. L'argomentazione del motivo, terminava col quesito: "se - in una fattispecie in cui l'AF abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG e IRAP i maggiori ricavi in capo a società di capitali da operazione intercorse con società controllate estere in applicazione dell'art. 76, comma 5, TUIR, incorra nel vizio di omessa pronuncia e, quindi, nella violazione dell'art. 112 c.c. la sentenza della CTR la quale, a fronte dell'eccepita carenza di prova in ordine: - alla sussistenza di un rapporto di controllo; - alla costituzione in forma societaria di acquirenti straniere; ometta di pronunciarsi sul fatto specifico trattandosi al contrario di una questione preliminare e decisiva essendo il concetto di controllo un presupposto soggettivo della applicabilità della norma sopra citata, che deve essere correttamente interpretata nel senso che solo le operazioni tra società residenti e società estere (con esclusione quindi di entità non costituite sotto tali forme) nelle quali la prima eserciti un potere di controllo a norma dell'art. 2359 c.c., possono esser oggetto di ripresa a tassazione laddove venga secondariamente dimostrato il mancato rispetto del valore normale quale stabilito dall'art. 9 del TUIR". Il motivo è inammissibile, giacché con lo stesso, in realtà, viene messa in discussione l'interpretazione giuridica del "concetto di controllo" adottata dalla CTR. La quale ultima ha implicitamente ritenuto l'esistenza del controllo societario, senza omissioni di pronuncia sul punto, tanto che il ricorso della contribuente venne in effetti accolto sulla errata giuridica considerazione che l'Amministrazione non aveva provato il regime fiscale di maggior favore né la anormalità dei prezzi praticati. Ciò che, invero, presuppone l'esistenza del "gruppo" societario.
Non essendo necessario accertare altri fatti, la causa può decidersi nel merito col rigetto del ricorso proposto dalla contribuente avverso l'atto fiscale.
Compensa le spese dei gradi di merito, condanna la contribuente a rimborsare le spese del presente, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta quello incidentale, cassa l'impugnata sentenza, e, decidendo nel merito, respinge il ricorso della contribuente Q. S.r.l., per la parte qui all'esame, proposto contro l'avviso di accertamento n. (...) IRPEG ILOR 2003; compensa integralmente le spese del merito, condanna la contribuente a rimborsare all'Agenzia delle Entrate le spese del presente, che liquida in € 15.000,00 per compensi, oltre a spese prenotate.
17-05-2013 14:30
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