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Sentenza

Il giudice tributario può riqualificare i contratti fra privati...
Il giudice tributario può riqualificare i contratti fra privati
Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 9 gennaio - 22 febbraio 2013, n. 4535
Presidente Cappabianca – Relatore Chindemi

Fatto

La Commissione tributaria provinciale di Imperia, con sentenza n. 92/02/2002, accoglieva il ricorso della società A. s.r.l. avverso l'avviso di accertamento, Iva +lrpeg + llor, relativo all'anno d'imposta 1997, che aveva rettificato la dichiarazione presentata dalla società sul presupposto della non congruità del contratto stipulato tra la A. s.r.l, titolare di un supermercato e la ditta T.L. & figli, operante nel settore della compravendita di carni, ritenendo congrua la percentuale del 9% a favore della A. s.r.l. e, quindi, l'utile lordo conseguito.
Con sentenza n. 92/02/2006depositata il 25/9/2006 la Commissione Tributaria Regionale della Liguria accoglieva parzialmente l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate determinando l'utile netto derivante dalla vendita delle carni da parte della A. s.r.l. nella percentuale del 13% del prezzo di vendita, rispetto alla percentuale del 20% stabilita dall'Amministrazione.
Propone ricorso per cassazione la A. s.r.l. deducendo i seguenti motivi:
a) omessa e/o insufficiente motivazione circa più fatti controversi e decisivi, motivazione apparente della decisione impugnata con riferimento all'affermato scopo elusivo del contratto concluso inter partes;
b) violazione e falsa applicazione degli articoli 1322 e 1375 c.c., 23 e 41 Cost., in relazione agli articoli 1362 e segg c.c., contestando l'esistenza di una generale clausola antielusiva non potendo l'Amministrazione, all'epoca, sindacare la convenienza economica di atti negoziali posti in essere da privati;
c) violazione e falsa applicazione dell'art. 10 legge 29/12/1990, n. 408; omessa e insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio; violazione e falsa applicazione dell'art. 2729 ce ritenendo mancare le condizioni per l'applicazione del citato art. 10 I. 408/1990, mancando presunzioni gravi, precise e concordanti;
d) carenza di giurisdizione del giudice tributario in ordine alla domanda di simulazione: violazione e falsa applicazione dell'art. 2 D.lgs 546/92; violazione e falsa applicazione degli articoli 1414, 1415, 1417 c.c. in relazione agli articoli 1362 e segg. c.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 2729 c.c., omessa e insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio ritenendo essere state violate le norme di ermeneutica prevista dall'art. 1362 e segg e le norme in tema di simulazione, di prova della simulazione e, nel caso di simulazione relativa, del negozio dissimulato.
La Agenzia delle entrate si è costituita tardivamente nel giudizio dì legittimità, al solo fine dell'eventuale partecipazione all'udienza di discussione della causa ai sensi dell'art. 370, comma uno, c.p.c
Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 9.1.2013, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione

Va premessa la inammissibilità del primo motivo per la mancata formulazione della "momento di sintesi", del terzo e quarto motivo con cui si deducono insieme violazione di legge e difetto di motivazione, nonché per la genericità dei quesiti senza alcun riferimento alla fattispecie concreta. Peraltro, con riferimento a tutti i motivi di ricorso le censura in esame non rispondono al requisito di autosufficienza in quanto non è possibile verificare la dedotta carenza motivazionale della sentenza in ordine alla esplicazione delle ragioni in fatto e diritto a supporto della asserita infondatezza della pretesa fatta valere con l'avviso di accertamento, con riferimento anche alla valutazione di merito degli elementi probatori. In conclusione tutti i motivi devo essere dichiarati inammissibile, non avendo adempiuto la parte ricorrente all'onere di trascrizione degli atti sopra indicati (ricorso proposto in primo grado; avviso di accertamento) e risultando il ricorso privo di autosufficienza, atteso che per consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel caso di censura di omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, sia nei caso in cui si intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, la parte ricorrente è onerata della specifica indicazione del documento (nella fattispecie il contratto inter partes), con l'indicazione del luogo, nel fascicolo, ove reperirlo e della chiara indicazione del nesso eziologico tra l'errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto (cfr Corte cass. V sez. 17.5.2006 n. 11501, cfr. anche Corte cass. SU 24.9.2010 n. 20159; id. 6A sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. 3A sez. 4.9.2008 n. 22303; id. 3A sez. 31.5.2006 n. 12984; id. 1 sez. 24.3.2006 n. 6679; id, sez. lav. 21.10.2003 n. 15751; id. sez. lav. 12.6.2002 n. 8388). Il ricorso è, comunque, infondato In relazione ai motivi (secondo terzo e quarto) che deducono anche violazione di legge per l'asserita generica inesistenza, all'epoca, di una clausola antielusiva e, comunque, per la mancanza delle condizioni per poter ravvisare un comportamento antielusivo da parte della società ricorrente, deve, invece, ritenersi sussistente nel nostro ordinamento giuridico la sussistenza di una clausola generale antielusiva, che trova fondamento nell'art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che concerne, in particolare, la ravvisabilità o meno, nella singola fattispecie concreta, del principio relativo al divieto di abuso del diritto.
L'ordinamento tributario è ispirato all'esigenza di contrastare il ed. abuso del diritto, individuato dalla giurisprudenza comunitaria come lo strumento essenziale, finalizzato a garantire la piena applicazione del sistema comunitario di imposta. In materia tributaria, invero, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, sebbene non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio di imposta, in assenza di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (cfr., ex plurimis, Cass. 6800/09, 4737/10, 20029/10, 1372/11).
Rientrano nel principio generale delle norme antielusive, trovando il suo fondamento nell'art. 53 Cost. e più specificamente nell'abuso del diritto, quelle pratiche che, pur formalmente rispettose del diritto interno o comunitario, siano mirate principalmente ad ottenere benefici fiscali contrastanti con la "ratio" delle norme che introducono il tributo. L'Amministrazione finanziaria può, inoltre, disconoscere e dichiarare non opponibili le operazioni e gli atti, privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta (cfr ex plurimis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 25537 del 30/11/2011, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21782 del 20/10/2011)
Inoltre sia l'Ufficio che il giudice tributario hanno il potere di riqualificare i negozi giuridici a fini fiscali, interpretando e qualificando, anche diversamente dalle parti, la natura e gli effetti giuridici dei vari contratti, quali si possono desumere dalla oggettività del loro contenuto e dalla ricognizione positiva del loro significato, e quindi accertare, come nel caso di specie, la simulazione che pregiudichi il diritto dell'Amministrazione alla percezione dell'esatto tributo.
Una siffatta indagine, implicando un'operazione giuridica, vale a dire l'esplicazione di un'attività interpretativa di un negozio giuridico al fine della individuazione degli effetti che esso è idoneo a produrre, può e deve essere compiuta anche dalla Commissione tributaria.
Quindi la qualificazione conferita agli atti dalle parti o dai giudice civile non è intangibile né da parte del giudice tributario, il quale ha il potere di valutare incidentalmente tutte le questioni che, connaturalmente estranee alla sua giurisdizione, sono decisive ai fini della soluzione della controversia devolutagli, né da parto dell'Amministrazione finanziaria, la quale, facendosi carico del relativo onere probatorio, ha il potere di riqualificare (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) i contratti sottoscritti dal contribuente, per farne valere la simulazione, e comunque per assoggettarli ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello altrimenti applicabile (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6959 del 14/03/2008)
Quindi sia l'Amministrazione finanziaria che il giudice tributario possono qualificare, ai fini fiscali autonomamente la fattispecie demandata alla rispettiva cognizione.
Il giudice tributario può, quindi, operare una diversa qualificazione giuridica della fattispecie concreta, che abbia dato luogo all'esercizio delta pretesa fiscale sottoposta al suo esame, non essendo precluso, allo stesso giudice, l'esercizio di poteri cognitori d'ufficio e non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo di impugnazione di atti, come quello amministrativo di legittimità (v., in tal senso, Cass. 20398/05, 21221/06).
L'esplicazione officiosa di siffatti poteri di qualificazione e cognitori - come detto, funzionali allo stesso corretto esercizio della giurisdizione - non può non dispiegarsi anche con riferimento al tema, particolarmente delicato, relativo all'esistenza, alla validità e all'opponibilità all'Amministrazione finanziaria dei negozio asseritamele simulato dal quale sì assume che derivino un maggior utile lordo incidente sui ricavi sia ai fini delle imposte dirette che dell'Iva.
Eventuali cause di invalidità o di inopponibilità del negozio stesso, anche in considerazione dell'indisponibilità della pretesa tributaria, ben possono essere rilevate dal giudice tributario anche d'ufficio (cfr. Cass. 20398/05, SU. 30055/08).
La pronuncia, in relazione al primo motivo di ricorso con cui viene dedotto vizio di motivazione, appare anche adeguatamente motivata in quanto i Giudici di merito dopo aver considerato la molteplicità degli elementi indiziari emersi dalla istruttoria -in particolare ponendo in risalto gli effetti del contratto concluso "inter partes", hanno poi argomentato, aderendo alla tesi dell'ufficio, che il compenso previsto era palesemente irrisorio ponendo le pattuizioni contrattuali in una situazione di forte sperequazione che non può essere giustificata con il richiamo della clientela operato dalla grande struttura di vendita.
Dalla assenza di plausibili ragioni economiche del contratto i giudici di merito correttamente rilevano come "dalla evidente antieconomicità dei negozio giuridico, l'amministrazione finanziaria ben può presumere scopo elusivo dello stesso e, in forza del disposto dell'art. 10 I. n. 408/1990, disconoscere i vantaggi tributari che ne deriverebbero", riducendo tuttavia al 13% del prezzo di vendita (rispetto al 20% indicato dall'Amministrazione nell'accertamento) l'utile netto derivante dalla vendita delle carni, facendo corretta applicazione dei principi di impugnazione-merito che connotano il giudizio tributario. Costituisce ormai ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte l'affermazione secondo cui il processo tributario non è annoverabile tra quelli di impugnazione - annullamento, bensì tra quelli di impugnazione - merito, in quanto non diretto alla mera eliminazione dell'atto impugnato, bensì alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva, sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell'accertamento dell'amministrazione finanziaria. Ne discende che, qualora il giudice tributario ravvisi la parziale infondatezza - il principio non si attaglia, invero, per evidenti ragioni, all'ipotesi di totale nullità dell'atto impositivo - della pretesa fiscale dell'amministrazione, non deve, né può, limitarsi ad annullare l'avviso di accertamento, ma deve quantificare la pretesa tributaria ritenuta corretta, entro i limiti posti dal petitum delle parti (cfr. Cass. 11212/07, 25376/08, 13868/10, 21759/11), La sentenza impugnata va altresì esente da censura in relazione alla asserita violazione della regola del riparto dell'onere probatorio, in quanto i Giudici territoriali si sono conformati ai principi enunciati da questa Corte nella specifica materia in esame: ed infatti una volta che l'Amministrazione ha fornito la prova del "disegno elusivo" (per tale intendendosi la prova degli atti negoziali e la ricostruzione della complessiva vicenda economica che non trova giustificazioni alternative al conseguimento del vantaggio fiscale), grava sul contribuente l'onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (cfr. Corte Cass., 5 sez. 4.4.2008 n 8772; id. 5 sez. 21.4.2008 n. 10257; id. 5a sez. 22.9.2010 n. 20029).
Inoltre non risulta censurata la decisiva affermazione della sentenza impugnata secondo cui da: contratti emerge l'esistenza di "accordi segreti". La Amministrazione ha assolto a! proprio onere con la indicazione degli elementi fattuali posti a fondamento dell'avviso dì accertamento ed assunti a base delle valutazioni compiute dai Giudici di merito, mentre il contribuente non ha adempiuto al proprio onere in quanto, a fronte della contestata irragionevolezza della operazione economica costituente la causa prima dei successivi atti negoziali delle società del gruppo, e della finalità elusiva dei contratto , non è stato in grado di individuare elementi contrari alle deduzioni dell'Amministrazione finanziaria, dotati di forza logica contrastante con le deduzioni dell'Ufficio (cfr. Corte cass. 5A sez. 21.1.2011 n. 1372).
Va, conseguentemente, rigettato il ricorso.
Nessuna pronuncia ve emessa sulle spese mancanza di attività difensiva dell'Agenzia.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso,
Avv. Antonino Sugamele

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