Dona al coniuge e ai figli una quota dell’immobile e subito dopo la rivende - E’ elusione fiscale Corte di Cassazione Sez. Tributaria - Ord. del 02.11.2011, n. 22717
In fatto e in diritto
La CTR del Lazio con sentenza dep. il 20/02/2009 ha, accogliendo l'appello dello ufficio, riformato la sentenza della CTP di Roma che aveva accolto il ricorso del contribuente avverso l'avviso di accertamento Irpef, tassazione separata, per il 2000.
Ha proposto ricorso per cassazione, con tre motivi, il contribuente deducendo violazione e falsa applicazione di legge e vizio motivazionale.
L'Agenzia ha resistito con controricorso.
La controversia in esame è costituita dalla ritenuta natura elusiva di un collegamento di negozi costituito da una donazione da parte del contribuente della propria quota di un terreno edificabile in favore del coniuge e dei figli e della successiva rivendita, a brevissima distanza di tempo, del medesimo bene, così evitando il P. (effettivo venditore) di dichiarare la plusvalenza patrimoniale da cessione di aree edificabili. Questa Corte (Cass. n. 2008/25374) ha, invero, ritenuto che, pur in assenza di esplicita enunciazione come nell'ordinamento tedesco, la nozione di abuso del diritto di matrice comunitaria o costituzionale si impone anche nell'ordinamento italiano (così anche Cass. n. 2008/10257 e n. 2006/21221).
“La giurisprudenza comunitaria e nazionale hanno costantemente ritenuto che costituiscono abuso del diritto quelle pratiche che, pur formalmente rispettose del diritto interno o comunitario , siano mirate principalmente ad ottenere benefici fiscali contrastanti con la ratio delle norme che introducono il tributo.
Si può quindi ritenere formata una clausola generale antielusiva, sia nell'ambito del diritto comunitario in relazione ai cosiddetti tributi “armonizzati” o comunitari quali l'IVA, le accise e i diritti doganali, sia in relazione ai tributi che esulano dalle imposte comunitarie, quali le imposte dirette (SS.UU. n. 30005/2008 e n. 30007/2008 che ricavano il principio dall'art.53 Cost.). Il rango comunitario o costituzionale di tale principio importa, altresì, la necessità della sua applicazione d'ufficio in base alla superiore giurisprudenza.
Spetta all'amministrazione fornire una seria prospettazione, individuando e precisando gli aspetti e le particolarità e non effettuare una mera affermazione, che l'utilizzo di forme giuridiche inusuali, anche mediante negozi giuridici collegati, fa ritenere l'operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d'imposta e dovrà il contribuente dare prova che la forma giuridica corrisponde a un reale scopo economico diverso dal mero risparmio del tributo. La vicenda processuale presenta, poi, evidenti analogie con quella elaborata da questa Corte in tema di operazioni inesistenti, in cui prospettato dall'ufficio un serio quadro indiziario tale da fare presumere, in base all'id quod plerumque accidit, che le operazioni sono inesistenti (o melius che non possono essere esistenti) si sposta a carico del contribuente l'onere di dare la prova della esistenza. (Cass. n. 21953/07).
Osserva testualmente la Corte (Cass. n. 21221/2006) “la nozione di abuso del diritto prescinde, pertanto, da qualsiasi riferimento alla natura fittizia o fraudolenta di un'operazione, nel senso di una prefigurazione di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all'ufficio di cogliere la vera natura dell'operazione. Come ha ribadito la sentenza H. al punto 2) del dispositivo, il proprium del comportamento abusivo consiste proprio nel fatto che, a differenza dalle ipotesi di frode, il soggetto ha posto in essere operazioni reali, assolutamente conformi ai modelli legali, senza immutazioni del vero o rappresentazioni incomplete della realtà. Tale concetto, che prescinde totalmente dal concetto di frode, in quanto il suo presupposto è proprio la validità degli atti compiuti, è proprio anche di altre tradizioni giuridiche europee continentali. Una rigorosa applicazione del principio dell'abuso del diritto, in tal modo definito, comporta, quindi, che l'operazione deve essere valutata secondo la sua essenza, sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, tali quindi da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio d'imposta.
Su tali principi è chiaramente infondato il terzo motivo, secondo cui l'onere di dimostrare l'elusività di una operazione spetta all'Ufficio, in quanto per i superiori principi l'iter probatorio è articolato in due fasi, la prima, costituita dalla deduzione da parte dell'Ufficio, di un serio quadro indiziario che possa fare presumere che l'operazione o il complesso di operazioni hanno l'esclusivo scopo di risparmio d'imposta laddove spetta al contribuente provare che, in contrario, le predette operazioni corrispondono ad un interesse economico non marginale. Infondato è anche il secondo motivo, sia nella parte che invoca la violazione di legge, art 38 del DPR n. 600 del 1973, in quanto il potere di recuperare a tassazione un reddito sottratto al Fisco in virtù di elusione ha fondamento nei superiori principi, sia in ordine alla valutazione delle presunzioni addotte dall'ufficio, che implica un giudizio di fatto censurabile solo per vizio motivazionale (motivo non dedotto nel caso in esame). Analogamente infondato è il primo motivo in quanto, pur nella estrema stringatezza della motivazione, la C.T.R. ritiene che il quadro indiziario supporti l'elusione e il contribuente (vizio di non autosufficienza) non deduce né indica le ragioni opposte al fine di dimostrare la sussistenza di un interesse economico non marginale. Il ricorso può, pertanto decidersi in camera di consiglio ai sensi dell'art. 375 c.p.c., con il rigetto del medesimo per manifesta infondatezza.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese che liquida in euro 4.000,00 oltre spese prenotate a debito.
Depositata in Cancelleria il 02.11.2011
05-11-2011 00:00
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