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Sentenza

REATI TRIBUTARI: Il commercialista risponde in concorso con il cliente per l'emi...
REATI TRIBUTARI: Il commercialista risponde in concorso con il cliente per l'emissione di fatture false per operazioni inesistenti. Cassazione, Sez. III, 1 ottobre 2010, n. 35453
1.L’art. 9 D.L.vo 74/2000 mentre esclude il concorso tra chi ha emesso la fattura e chi l’ha utilizzata, non esclude invece il concorso nella emissione della fattura o del documento per operazioni inesistenti secondo le regole ordinarie del concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p..

2.Una diversa interpretazione, infatti, determinerebbe una situazione di irrilevanza penale nei confronti di chi abbia posto in essere comportamenti riconducibili alla previsione concorsuale in relazione alla emissione della documentazione fittizia e che non abbia poi utilizzato le fatture per un mero accidente (accertamenti effettuati prima della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione). In tal caso infatti il soggetto, pur avendo concorso nella emissione delle fatture inesistenti con un ruolo di primaria rilevanza (ad es. come istigatore) non verrebbe sanzionato né ex art. 8 D.L.gs. (a titolo di concorso), né ex art. 2 medesimo D.L.gs. a titolo di tentativo (essendo questo escluso espressamente dall’art. 6).

 

 

Cassazione, Sez. III, 1 ottobre 2010, n. 35453

(Pres. Altieri – Rel. Amoresano)

 

 

Osserva

1) Con sentenza del 28.10.2008 il Tribunale di Nicosia, in composizione monocratica, condannava C. C. e P. C., riconosciute alla C. le circostanze attenuanti generiche, alla pena, rispettivamente, di anni uno e mesi due di reclusione la prima e di anni uno e mesi otto di reclusione il secondo, per i reati di cui agli artt. 110 c.p., 2 comma 3 D.L.vo 74/2000 (per avere, in concorso tra loro, la C. quale commercialista, indicato nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2003 del P. elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti), ascritti ai capi b) e c), nonché del reato di cui agli artt. 81 cpv, 110 c.p., 8 comma 3 D.L.vo 74/2000 (perché, in concorso tra loro, al fine di consentire a Cocuzza Salvatore di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto emettevano tre fatture relative ad operazioni inesistenti) ascritto al capo d); dichiarava inoltre interamente condonate le pene inflitte,

La Corte di Appello di Caltanisetta, in data 7.7.2009, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava assorbito il fatto di cui al capo c) in quello già ascritto al capo b) e rideterminava la pena inflitta alla C. in anni uno e mesi uno di reclusione ed al P. in anni uno e mesi quattro di reclusione, confermando nel resto.

Riteneva la Corte, quanto alle imputazioni di cui ai capi b) e c), che , trattandosi di elementi passivi fittizi esposti in un’unica dichiarazione e relativi allo stesso anno, il reato fosse unico,

Disattendeva, invece, le altre doglianze difensive, risultando provato che tutte le fatture utilizzate o emesse erano relative ad operazioni inesistenti e che per la configurabilità del reato di cui all’art. 2 non si richiede la realizzazione del fine di evadere le imposte.

2) Ricorre per Cassazione C. C., a mezzo del difensore, denunciando con il primo motivo la violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 521 c.p.p..

I reati contestati ai capi b) e c), riguardanti l’unica dichiarazione dei redditi del 2003, costituiscono una scomposizione frazionata di un unico fatto. Nel fatto di cui al capo b), contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, non può pertanto essere ricompreso il fatto diverso di cui al capo c). La decisione della Corte di merito risulta conseguentemente in contrasto con il principio di correlazione tra imputazione e sentenza.

Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge in relazione all’art. 2 D.L.vo 74/2000 e 110 c.p. Secondo la Corte territoriale la prova del concorso nel reato della C. si fonda sull’esistenza del rapporto coniugale. Ma il reato di dichiarazione fraudolenta è reato proprio che si perfeziona con la presentazione della dichiarazione annuale. Certamente è ipotizzabile il concorso secondo le regole generali di cui all’art. 110 e ss. c.p., ma va provato sulla base di elementi specifici (tenuto conto tra l’altro che l’obbligato alla presentazione della dichiarazione è anche egli commercialista).

Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione. La Corte ricorre ad una interpretazione obsoleta della norma. In effetti il legislatore con la riforma introdotta dal D.L.vo 74/2000 ha voluto punire non i comportamenti prodromici, ma solo quelli produttivi di danno erariale. È necessario quindi che gli elementi fittizi vengano trasfusi nella dichiarazione con intenti evasivi (non essendo sufficiente la mera annotazione della fattura o del documento per operazioni inesistenti nei libri contabili). Né la prova del dolo specifico poteva essere ricavata per presunzioni o argomentazioni di carattere logico.

Con il quarto motivo denuncia la violazione ed erronea applicazione di legge in relazione all’art. 8 D.L.vo 74/2000, 81 e 110 c.p.. A parte il dubbio che la Corte abbia travisato il fatto contestato (nella imputazione si fa riferimento a tre fatture, mentre in motivazione si parla di una sola imprecisata fattura), la sentenza è contraddittoria avendo mantenuto l’aggravante della continuazione nonostante che, sia pure per errore sul fatto, si indichi una sola fattura. Per di più, anche nella ipotesi di più fatture, trova applicazione il comma 2 dell’art. 8.

Inesplicata è poi la ritenuta inapplicabilità dell’art. 9 che esclude il concorso tra chi si avvale di fatture per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo.

Con il quinto motivo denuncia la carenza e contraddittorietà della motivazione in relazione alla determinazione della pena nonostante le specifiche censure contenute nell’atto di appello.

Ricorre per cassazione P. C., a mezzo del difensore, con motivi che ripropongono sostanzialmente le stesse questioni esposte nel ricorso della C. con il primo, terzo e quarto motivo. Denuncia, a sua volta, che la motivazione non risulta logicamente argomentata in relazione alla determinazione della pena.

3) I ricorsi sono infondati e vanno, pertanto, rigettati. Ad evitare inutili ripetizioni si procederà alla trattazione unitaria dei motivi “comuni”.

3.1) Infondata, innanzitutto, è la dedotta violazione dell’art. 521 c.p.p.

È opportuno ricordare che, secondo giurisprudenza pacifica di questa Corte, si ha violazione del principio di correlazione tra sentenza ed accusa contestata solo quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito. La verifica dell’osservanza del principio di correlazione va, invero, condotta in funzione della salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato cui il principio stesso è ispirato. Ne consegue che la sua violazione è ravvisabile soltanto qualora la fattispecie concreta - che realizza l’ipotesi astratta prevista dal legislatore e che è esposta nel capo di imputazione - venga mutata nei suoi elementi essenziali in modo tale da determinare uno stravolgimento dell’originaria contestazione, onde emerga dagli atti che su di essa l’imputato non ha avuto modo di difendersi (cfr. ex multis Cass. pen. sez. VI, 8.6.1998 n. 67539).

Sicché “non sussiste violazione del principio di correlazione della sentenza all’accusa contestata quando nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, in quanto l’immutazione si verifica solo nel caso in cui tra i due episodi ricorra un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza aver avuto nessuna possibilità d’effettiva difesa” (cfr. sez. 6 n. 35120 del 13.6.2003). Anche di recente questa Corte ha ribadito il principio che “si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali in modo tanto determinante da comportare un effettivo pregiudizio ai diritti della difesa” (cfr. Cass. sez. 6 n. 12156 del 5.3.2009).

Ai ricorrenti era stato contestato, con due distinti capi di imputazione, di aver, nella dichiarazione relativa ai redditi dell’anno 2003, indicato elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti (fattura n. 17 bis del 30.9.2003 emessa dalla ditta di Proietto Nunziata, indicata nel capo b), e numerose fatture emesse dalle ditte Visciglia, Vendrame, F.lli Nardi snc, Federici Marcello, Cocuzza Salvatore indicate nel capo c).

La Corte territoriale, tra l’altro in accoglimento dei rilievi difensivi, si è limitata correttamente a ritenere che non fosse possibile la “duplicazione” dell’imputazione in relazione ad elementi passivi fittizi esposti in un’unica dichiarazione relativa agli stessi redditi ed allo stesso anno. Non si vede pertanto quale violazione dei diritti di difesa possa derivare dalla “unificazione” delle due imputazioni, dal momento che nelle stesse risultavano specificamente indicate le fatture relative ad operazioni inesistenti di cui ci si era avvalsi per indicare nella dichiarazione dei redditi elementi passivi fittizi.

3.2) I giudici di merito hanno correttamente interpretato ed applicato l’art. 2 D.Lvo 74/2000, che sanziona “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi”. E, con motivazione adeguata ed immuni da vizi, hanno accertato che le fatture indicate nei capi di imputazione b) e c) erano relative ad operazioni inesistenti, che esse erano state annotate nella contabilità della ditta P. C. e che erano state, infine, utilizzate nella dichiarazione relativa ai redditi del 2003 (cfr. pag. 5, 6, 7 e 8 sent. Trib.).

Già Tribunale aveva ritenuto che fosse pienamente configurabile il reato di cui all’art. 2 D.L.vo 74/2000 “...contenendo la dichiarazione fiscale del P. l’indicazione di elementi passivi fittizi, come accertato attraverso la deposizione del personale della Guardia di Finanza ed essendo le fatture che dovevano supportare detta indicazione ideologicamente false; ed aveva sottolineato che l’utilizzazione di dette fatture “comportava l’abbassamento della base imponibile su cui calcolare le imposte sul reddito e consentiva, dunque, a quest’ultimo, di evadere le imposte...”.

8. Nel rinviare alla completa motivazione delta sentenza di primo grado, evidenziava la Corte territoriale la irrilevanza delle deduzioni difensive, essendo stata acquisita la certezza, tramite testimoni, delle indicazioni apposte nella dichiarazione dei redditi.

Non vi è stato, quindi, alcun “arretramento” nella interpretazione della norma, non avendo, in alcun modo, i giudici di merito, come si è visto, ritenuto consumato il reato “con gli atti preparatori degli adempimenti fiscali posti a carico del contribuente”.

Altrettanto ineccepibile è poi l’assunto della Corte, secondo cui il reato di cui all’art. 2 D.L.vo non richiede la realizzazione del fine di evadere le imposte e pertanto il verificarsi del danno erariale,

3.3) Quanto al reato di cui al capo d), l’art. 8 D.L.vo n. 74/2000 sanziona la condotta di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte,

L’art. 9 D.L.vo 74/2000, poi, mentre esclude il concorso tra chi ha emesso la fattura e chi l’ha utilizzata (ad evitare che la medesima condotta sostanziale sia punita due volte - cfr. Cass. 3 giugno 2003 n. 24167 Rv. 220453), non esclude invece il concorso nella emissione della fattura o del documento per operazioni inesistenti secondo le regole ordinarie del concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p..

Una diversa interpretazione, infatti, determinerebbe una situazione di irrilevanza penale nei confronti di chi abbia posto in essere comportamenti riconducibili alla previsione concorsuale in relazione alla emissione della documentazione fittizia e che non abbia poi utilizzato le fatture per un mero accidente (accertamenti effettuati prima della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione). In tal caso infatti il soggetto, pur avendo concorso nella emissione delle fatture inesistenti con un ruolo di primaria rilevanza (ad es. come istigatore) non verrebbe sanzionato né ex art. 8 D.L.gs. (a titolo di concorso), né ex art. 2 medesimo D.L.gs. a titolo di tentativo (essendo questo escluso espressamente dall’art. 6).

Nel caso di specie, peraltro, non è stato ritenuto il concorso tra chi si avvale di fatture per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo. Si legge infatti chiaramente nella sentenza di primo grado, richiamata dalla Corte territoriale, che P. C. e C. C. vanno ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 8 comma 3 D.L.vo 74/200, avendo emesso le tre fatture per operazioni inesistenti con l’evidente finalità di consentire al Cocuzza, il quale le aveva indicate nella propria contabilità, l’evasione delle imposte sul valore aggiunto. Il Cocuzza, invece, risponde del reato di cui all’art. 2 del D.L.vo per aver utilizzato dette fatture. E, del resto, le imputazioni di cui ai capi d) ed e) indicavano i distinti e diversi reati di cui rispondevano, da un lato, la C. ed il P. e, dall’altro, il Cocuzza.

3.3.1) A norma dell’art. 8 comma 2 D.Lvo n. 74/2000 “Ai fini dell’applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l’emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato”.

Sotto l’imperio della precedente disciplina di cui alla L. 516/1982 la prevalente giurisprudenza riteneva che il reato di cui al n. 5 dell’art. 4 si consumasse “appena la fattura falsa è emessa o utilizzata; se le fatture sono più d’una, i reati sono molteplici, anche se unificabili nel vincolo della continuazione” - cfr. Cass. pen. sez. 3, 13.11.1997 n. 10207 - (In motivazione si precisava che la tesi contraria, secondo cui il reato è unico per tutte le fatture emesse nello stesso periodo di imposta, sarebbe sostenibile soltanto se la frode fiscale fosse un reato di evento a dolo generico, integrato solo con il conseguimento del risultato tributario-evasione o indebito rimborso),

I dubbi interpretativi manifestatisi non hanno più ragion d’essere alla luce del chiaro disposto normativo di cui al comma 2 dell’art. 8 D.L.vo 74/2000 che, come si è visto, considera “unitario” il reato anche in presenza della emissione, nel corso del medesimo periodo di imposta, di una pluralità di fatture per operazioni inesistenti.

Erroneamente, pertanto, nel capo di imputazione è richiamato l’art. 81 cpv. c.p., essendo state le tre fatture emesse nell’anno 2003.

Tale errore, però non ha avuto alcuna incidenza, non essendosi tenuto conto della continuazione interna (erroneamente contestata) nel calcolo della pena.

3.4) I giudici di merito hanno correttamente ed adeguatamente motivato in ordine al concorso della C. nei reati ascritti al P.. Già il Tribunale aveva evidenziato il ruolo “essenziale” avuto dall’imputato nella vicenda, sottolineando come nello studio della predetta erano state rinvenute numerose fatture che non risultavano contabilizzate dalle ditte emittenti ma annotate nella contabilità della ditta del P. e delle quali era sta poi accertata la falsità. Inoltre presso il medesimo studio era sfato trovato un timbro assolutamente identico a quello riportato sulle fatture (false) della ditta Cocuzza.

La Corte territoriale, a sua volta, ha evidenziato che il possesso delle fatture false e del timbro attesta, in modo inequivocabile, la partecipazione della C. alle condotte criminose contestate (pag. 3 e 4). L’affermazione di responsabilità dell’imputata non è stata quindi, certo, fondata sul solo rapporto di coniugio.

3.5) I giudici di merito hanno, infine, fatto corretto uso del potere discrezionale nella determinazione della pena (pag. 12 sent. Trib. e pag. 5 sent. App.). Le censure sollevate con il ricorso risultano peraltro assolutamente generiche e non tengono conto che, come si è visto, non è stato apportato alcun aumento per la, erroneamente, contestata continuazione interna in relazione al reato di cui al capo d).
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Avv. Antonino Sugamele

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